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Alzheimer: la fatica di chi si prende cura

Alzheimer: la fatica di chi si prende cura

L’Alzheimer e le patologie dementigene sono considerate una malattia “della famiglia”. Il pesante e prolungato carico assistenziale suscita al suo interno una serie di sentimenti intensi e contrastanti e spesso induce nuove dinamiche relazionali per giungere ad un possibile adattamento. Il coinvolgimento familiare è spesso totalizzante, soprattutto con il progressivo aggravarsi della malattia.

 

Molti caregiver di persone con malattia di Alzheimer affrontano un lungo periodo, dai 3 ai 15 anni, di continue richieste fisiche e psico-sociali.

 

Il dato che esprime in modo sintetico l’onerosità dell’impegno del caregiver di una persona con malattia di Alzheimer è rappresentato dal numero di ore in cui è impegnato in compiti di assistenza e di sorveglianza. Tutti i giorni il caregiver dedica al malato in media sei ore della propria giornata per le attività di assistenza diretta (igiene personale, preparazione e somministrazione dei pasti, dispensazione dei farmaci e delle medicazioni, attenzioni e sostegno, ecc..), mentre le ore dedicate alla sorveglianza sono mediamente pari a sette (AIMA Censis, 2007). Sulle ore dedicate all’assistenza diretta e di sorveglianza incide lo stadio di malattia, mentre il poter disporre di un supporto privato (ad es. badanti), sebbene produca una diminuzione nel numero di ore di gestione del malato è meno rilevante, poiché le mansioni dell’assistenza rimangono in carico al familiare .

 

Questa condizione di richieste sul piano pratico-organizzativo ed emotivo è definita come Caregiver Burden (che letteralmente significa “peso” legato all’assistenza di un malato) (Novak, M. Guest. C., 1989). Il livello di stress percepito da parte di chi si prende cura del malato può portare a problemi di salute (quali insonnia, stanchezza cronica, somatizzazioni), a difficoltà di tipo emotivo (ansia e/o depressione, rabbia, frustrazione, senso di colpa, angoscia) e a problemi relazionali (isolamento sociale, diminuzione del tempo da dedicare ai propri bisogni, ad altri ruoli familiari, genitoriali, coniugali, professionali).

 

I fattori che influiscono su questo carico non sono solo legati alle caratteristiche della malattia, ma anche alla condizione di solitudine in cui rischia di essere il care-giver, se poco sostenuto nel processo di accettazione e comprensione della malattia e nella rielaborazione del profondo dolore che ne consegue.

 

Coloro che rivestono questo ruolo si assumono, quasi senza aiuto, un compito colossale. Spesso non si riceve alcuna preparazione pratica o psicologica per questo. Si è il prodotto della propria educazione, della propria storia, fatta di limiti, di risorse e dei  tentativi di aderire agli standard richiesti comunemente a chi si prende cura di un famigliare malato. A volte si può cadere in errori, compiere delle scelte che non sono del tutto rispettose nei confronti dell’”essere Persona” del malato, ma dobbiamo anche interrogarci sull’”essere Persona” del caregiver. Nei momenti di difficoltà e di avanzamento dello stadio della malattia, c’è qualcuno che aiuti il familiare mentre si trova alle prese con i suoi sentimenti di rabbia, inadeguatezza, senso di colpa e che lo aiuti a gestire meglio la sua tragica situazione?

 

Il problema principale quindi non è di cambiare le persone con demenza, ma aiutare il caregiver ad avere più strumenti attraverso cui comprendere cosa sta avvenendo dentro di sé e nel mondo interiore della persona malata. Ricercare e offrire relazioni di aiuto per chi si prende cura diventa la chiave attraverso cui ricostruire un percorso di vita generativo.

 

“La demenza continuerà ad avere un aspetto profondamente tragico, sia per coloro che ne sono colpiti, sia per chi sta vicino a loro. Tuttavia c’è una grande differenza tra una tragedia in cui le persone sono coinvolte attivamente e una cieca e disperata sottomissione al fato” (Tom Kitwood, 1997).”